ghianda di quercia su tronco

ghianda di quercia su tronco

Simbologia della Ghianda

La ghianda viene considerato un importante simbolo che richiama la vita e la nascita.
È apprezzata per i suoi elementi di forza e virilità ed è stata un simbolo di rigenerazione, la ghianda infatti è il seme della Quercia, un albero così poderoso e molto longevo
(alcune specie possono vivere anche 200-300 anni!).
La ghianda, legata al suo albero, simboleggia la presenza della divinità in terra e per questo racchiude in sé anche un significato legato all’eternità.

La quercia era vissuta come un albero di vita e nella tradizione lo stesso, le sue foglie e le ghiande sono in grado di formare uno dei circoli di segni che non solo avevano la capacità di proteggere il raccolto, ma anche di renderlo più abbondante.

Il valore simbolico della quercia è dovuta al fatto maschile che la ghianda ricorda i testicoli di un uomo. La ghianda nei popoli germanici era considerata sacra, era l’emblema del dio Thor.

Gli antichi romani credevano che la ghianda avesse proprietà curative, che fosse in grado di ringiovanire chi la portava. In passato una ghianda indossata come un amuleto, proteggeva contro l’invecchiamento e l’alcolismo.

Insomma, di base la Ghianda è sicuramente un simbolo di buon auspicio e di augurio di lunga vita e pienezza dell’esistenza.

Curiosità

La ghianda in passato veniva utilizzata in cucina; veniva ridotta in farina con la quale si preparava il pane.

James Hillman ha composto una teoria sulla natura umana detta “Teoria della Ghianda”; in pratica secondo il filosofo, psicoanalista e saggista americano, ognuno di noi possiede un talento innato dentro di sé, un daimon che aspetta solo di essere riscoperto, un destino cui siamo chiamati fin dalla nascita e che spesso si manifesta più liberamente nell’infanzia. Per rendere meglio il concetto, pensiamo agli alberi.
Un seme di quercia nel corso del tempo darà vita necessariamente a una quercia, non a un pino né a un frassino. Ogni quercia ha infatti delle peculiarità che la rendono unica, tuttavia sempre di quercia si tratta.
E così, secondo Hillman, succede a noi umani, che nasciamo con uno o più talenti peculiari, dimenticandocene spesso strada facendo.

Hillman sostiene che “ognuno di noi percepisce che la propria vita, contiene molte più cose di quante le mille teorie fin qui formulate riusciranno mai a definire. Chi non ha mai avuto, almeno una volta nella vita, una sorta di illuminazione che ci ha condotto dove siamo. Questo qualcosa ci ha colpiti come un fulmine. Dopo la ‘fulminazione’ avevamo chiaro in mente ciò che dovevamo fare e lo abbiamo fatto. Improvvisamente abbiamo avuto una maggiore coscienza di noi.”

Quindi siamo come ghiande potenzialmente querce, a dispetto delle teorie che ci vogliono frutto del contesto antropologico, ambientale, sociale, famigliare. In realtà questi condizionamenti esterni agiscono su di noi, ma siamo altro oltre ad essi. Il problema della vocazione è che nella stragrande maggioranza dei casi la dimentichiamo. Ma attenzione! Il punto di vista di Hillman non è fatalista come potrebbe apparire al primo sguardo, egli infatti ritiene che l’individuo sia responsabile delle proprie scelte e in effetti dipende proprio da lui la capacità o meno di ricontattare il daimon, la vocazione innata che è poi il motivo per cui abbiamo scelto di vivere qui.

Non è nemmeno detto che la ghianda diventi quercia perché, sebbene in potenziale lo sia, potrebbe benissimo essere distrutta prima che questo si liberi, oppure potrebbe rimanere piccina per una serie di motivazioni, ammalarsi e via dicendo. Ma il daimon è anche una presenza invisibile che si prende cura di noi quotidianamente. Una presenza che nell’antichità veniva omaggiata con rituali e ringraziamenti, oggi quasi del tutto ignorata.

Hillman sostiene che il daimon, questo spiritello amico, possa emergere in momenti inaspettati, tuttavia cruciali. E per spiegarlo porta l’esempio del filosofo R.G. Collingwood che, nell’infanzia, ebbe un primo importante contatto con la propria vocazione: “Mio padre aveva moltissimi libri … un giorno, quando avevo otto anni, la curiosità mi spinse a prendere da uno scaffale un libriccino nero, sulla cui costola era scritto: “L’etica di Kant” … come iniziai a leggerlo, incuneato tra la libreria e il tavolo, fui assalito da una strana sequela di emozioni. Dapprima mi prese un’intensa eccitazione. Avevo la sensazione che in quel libro si dicessero cose della massima importanza su argomenti della massima urgenza, che io dovevo assolutamente capire. Poi, con un impeto di ribellione, venne la scoperta che, invece, non ero in grado di capirle. Quel libro, pensai con un senso di indicibile vergogna, era scritto con parole inglesi e con frasi che seguivano la grammatica inglese, eppure a me sfuggiva completamente il suo significato. Infine, l’emozione più strana di tutte: la certezza che il contenuto di quel libro, anche se non lo capivo, fosse non so come affar mio, una cosa che mi riguardava personalmente, o meglio, che riguardava un me stesso futuro … Non c’entrava però il desiderio; non è che ”volessi”, nel senso comune del termine, padroneggiare da grande l’etica kantiana; ma era come se si fosse alzato un velo a rivelare il mio destino. Poi, gradualmente, mi sentii come se mi fosse stato addossato il peso di un compito, la cui natura non avrei saputo spiegare se non dicendo: “Devo pensare”. A che cosa non sapevo, ma, quasi ubbidendo a quel comando, rimasi in silenzio, con la mente assorta.” Chi alzò il velo della filosofia? Il daimon secondo Hillman, perché lo spiritello ci induce a scegliere le situazioni e le persone più adatte per far emergere la nostra vocazione.

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